Parole, potere e post: come la lingua si è venduta l’anima (e la privacy). L’Intelligenza Artificiale e i Social condizionano il nostro pensiero, ma non solo attraverso ansia, competizione, iperstimolazione e zone cerebrali: lo fa anche impoverendo il nostro linguaggio, e quindi, la nostra logica.
In principio era il verbo, e il verbo era presso Dio, e il verbo era Dio.
(Giovanni, 1,1)
Poi sono arrivate le story su Instagram. Per arrivare lì, è stata tutta discesa. E ripida, anche. Nell’ultimo mezzo secolo, la lingua italiana ha subito una trasformazione che neanche Dante avrebbe saputo profetizzare: da strumento di pensiero e veicolo della grande tradizione letteraria, si è piegata (senza nemmeno troppa resistenza) alle leggi del consumo, della spettacolarizzazione e della viralità digitale.
Non stiamo parlando solo di grammatica maltrattata o accenti scomparsi, ma di una vera e propria inversione antropologica, come la definisce Gian Matteo Corrias nel suo intervento su lingua e potere (scusate il link sull’orrendo YouTube). Una delle mie citazioni più frequenti è quella del film Arrival, di Denis Villeneuve. Questo capolavoro della fantascienza ci insegna che il linguaggio è conoscenza, e attraverso un linguaggio evoluto è possibile sviluppare una conoscenza evoluta.
La lezione di Corrias è la stessa, ma capovolta. Se vogliamo tenere a freno la creatività delle masse, è sufficiente impoverire il linguaggio, fino a farlo diventare sterile. Un cambiamento epocale in cui la comunicazione si allontana progressivamente dal ragionamento per abbracciare senza pudore l’emozione, il desiderio, e soprattutto l’irrazionale. E indovinate un po’? Funziona a meraviglia. Per chi detiene il potere, ovviamente.
Il punto è che questo slittamento non è nato con TikTok (anche se il colpo di grazia, ammettiamolo, l’ha dato lui). Tutto parte da lontano, da quel bel tomo di Edward Bernays del 1928 intitolato “Propaganda”. Sì, si tratta proprio del nipote di Sigmund Freud, il primo a capire che l’inconscio è un ottimo alleato delle pubbliche relazioni. L’idea di fondo è semplice: la maggioranza delle persone non ragiona, reagisce. E se il pubblico ragiona poco, tanto vale parlargli con immagini, slogan, e un po’ di sana manipolazione emozionale.
Il risultato? Una comunicazione che bypassa la corteccia prefrontale e va dritta al cuore (e al portafogli). E qui entrano in scena i social media, palcoscenico globale del nuovo narcisismo collettivo. Secondo il sociologo Vanni Codeluppi, ciò che accade è una vera “vetrinizzazione dell’esistenza”: ognuno diventa prodotto, spettacolo, brand di sé stesso. La realtà? Secondaria. L’autenticità? Simulata.
Questo ha effetti anche sulla lingua, che sui social perde coerenza logica e strutturale, assorbe termini inglesi a profusione (senza nemmeno provare a tradurli, povera lingua madre) e si appiattisce in forme che ricordano l’oralità più grezza. Si parla tanto e si scrive peggio. E il pensiero? Beh, il pensiero fa le valigie.
A confermare questa inquietante diagnosi, ci pensano i linguisti e gli psicologi sovietici (è ancora consentito citarli?) come Alexander Luria, che negli anni ‘30 scoprì che l’accesso alla scrittura cambia letteralmente il modo in cui pensiamo. Dove non arriva la penna, non arriva il concetto astratto. Insomma, senza scrittura, niente Kant. Ma nemmeno una bolletta ben capita.
Il rischio, oggi, è quello di una nuova “oralità di ritorno”, dove la scrittura è solo una forma travestita di chiacchiera da bar (anche se crediamo che il tenore dei commenti anonimi sotto i video e i post sia un gardino sotto a quello del bar). Questo impoverisce il linguaggio, sì, ma anche il pensiero. E in una società già iper-controllata, iper-profilata e poco attenta alla privacy, l’ultima cosa che ci serve è rinunciare anche alla capacità di decifrare ciò che ci accade.
Ironico, no? Abbiamo milioni di parole a disposizione, eppure non riusciamo più a costruire un pensiero complesso. Ma almeno possiamo farlo in diretta su TikTok. La prossima volta che facciamo un commento “veloce veloce”, pensiamo non solo all’impatto socio-ambientale del nostro minuscolo gesto, ma anche che una frase poco ragionata potrebbe essere l’ultimo colpo alla nostra libertà (e alla grammatica italiana).