Il santo graal del capitalismo della sorveglianza è il perno che consente di unificare i dati che, volontariamente o meno, abbiamo sparso per il web. Chi avrà il pivot, avrà il controllo del mondo.
Cari sudditi digitali, oggi parliamo del nostro pivot. No, non è il nome di una nuova app per il fitness o di una pratica sessuale estrema. È molto, molto più prezioso. È la chiave d’oro, l’eldorado digitale, il santo graal che le big tech inseguono con la bava alla bocca da anni. Si tratta, sostanzialmente, della nostra anima digitale, legata, imbavagliata e con l’etichetta del prezzo appesa al collo.
Il “pivot” è l’identificatore unico che collega tutte le nostre identità digitali. Permette di collegare dati apparentemente anonimi o frammentati (sparsi chissà dove) alla nostra identità reale, che a qualcuno abbiamo dato. È importante, per quelle merde, trasformare il nostro comportamento online (ricerche, acquisti, like, movimenti) in un profilo unificato e vendibile, annullando qualsiasi strategia di difesa basata su pseudonimi o compartimentalizzazione.
Per noi boomer dell’informatica, erano bei tempi quelli in cui vagabondavamo per il web come fantasmi, anonimi e liberi. Tempi in cui il nickname era sufficiente e il concetto di “profilo unificato” non sarebbe potuto comparire nemmeno in un romanzo distopico scritto da Orwell in una crisi di paranoia.
Poi sono arrivati i giganti del tech, bigData, o la Bestia, come li chiamiamo noi, con la geniale intuizione: “e se provassimo a far soldi lucrando sui dati dei nostri utenti?” E così, l’anonimato è diventato un reato sociale, una stranezza da emarginati, un po’ come collezionare francobolli o guardare le cassette VHS.
Il problema? È che siamo umani. Abbiamo questa fastidiosa abitudine ad avere personalità multiple (pazzia!). Questioni di lavoro? Ecco un’email quasi seria (vabbè, non tutti…). Shopping online? Meglio un’altra email creata al volo come “pippo.pluto@providerqualsiasi.xyz“. Abbiamo l’impellenza di iscriverci a un forum di appassionati di allevamento di lombrichi ornamentali? Ecco “worm_lover_69@mailinator.com“. È sopravvivenza: abbiamo abitudini diverse, ma se non forniamo un collegamento, un perno (appunto), nessuno può risalire alla nostra complessa personalità.
La nostra ossessione per i lombrichi non inquina la nostra reputazione di serio professionista, e viceversa. Un piccolo atto di ribellione quotidiana contro la schedatura globale.
Ma questo, miei cari anarchici digitali, non poteva durare. L’industria tech ha iniziato a digrignare i denti. Meta ha tuonato: “nomi veri o niente! Usare ‘supermario83’ è un attentato alla civiltà occidentale!” (citazione quasi testuale dai loro termini di servizio). Google, più subdolo, ha allargato la sua ragnatela: “vuoi la mail? Ecco gmail. Vuoi vedere video di gattini? Ecco youtube. Vuoi archiviare le tue foto imbarazzanti? Ecco foto. Ma devi loggarti. Sempre. Ovunque. Per sempre.” Tutto collegato, tutto tracciato, tutto venduto, con login unico. Il sogno bagnato dei data broker.
Poi è arrivato lo smartphone, il dispositivo di tortura definitivo! Non è più solo un telefono, è il vostro carceriere digitale, la vostra gogna biometrica portatile. Banche e pubbliche amministrazioni (quelle stesse che impiegano 6 mesi per aggiornare un indirizzo) lo hanno incoronato re dell’identità. “hai lo smartphone? Allora sei tu! Chi altri potrebbe avere questo aggeggio che traccia ogni tuo movimento, ogni tuo acquisto, ogni tua ricerca su ‘come curare l’alito pesante’ alle 3 di notte?” Il pivot si è fatto più solido, più inesorabile.
Ma ancora non bastava. Serviva il colpo definitivo. L’apoteosi del pivot. E, come prevedibile, questa genialata arriva dal re dell’intelligenza artificiale, Sam Altman. Tempo fa avevo scritto che stava conducendo esperimenti sul reddito di cittadinanza, fornendo a cittadini USA a basso reddito un sostegno mensile di 1.000 dollari per un periodo di tre anni, senza alcuna condizione. “Figata”, ho pensato: “uno straricco che mette parte dei suoi guadagni a mitigare i disastri da lui causati, ovvero la perdita di lavoro.”
Ma la realtà è sempre la versione merdosa e grigiastra delle nostre peggiori fantasie: in realtà, Sammy non ci smena un dollaro dei suoi. Distribuisce una criptovaluta, WorldCoin, di cui si tiene ben stretto il diritto di moltiplicazione. E fin qui, non ci sarebbe niente di strano: non sarebbe il primo che arricchisce sulle spalle della povera gente. Il problema è che lo fa spacciandosi per il messia: “salviamo il mondo! Equità! Democrazia globale! Reddito universale!” Gridano Sam Altman e Alex Alania, i padri di WorldCoin.
Ma anche qui, poco male. Avevamo già Elon Musk che arricchiva sulle spalle dei fighetti ecologisti. Il genio di WorldCoin è di un’altra categoria: è diabolico. In cambio dei soldi del monopoly, vi chiede l’iride. Avete capito bene. Non un codice, non una password. Il vostro occhio. Scansionato da un inquietante robottino chiamato Orb (nome che richiama sinistramente una setta galattica maligna). “Dacci il tuo occhio, plebea, e avrai in cambio soldi… beh… a dir la verità una moneta virtuale che oscilla come un ubriaco!” E due milioni di gonzi, pardon, “utenti pionieri“, ci sono già cascati.
Ancora non basta. Manca la presa per il culo: WorldCoin è una crypto! Un sistema finanziario nato per sfuggire ai controlli centralizzati delle banche, per l’anonimato, per la sovranità individuale! Invece, questo cosa fa? Vi identifica biometricamente in modo univoco, permanente e immutabile! È come aprire un locale per scambisti chiedendo la carta d’identità e le impronte digitali all’ingresso.
Il pivot definitivo. Non un nome, non un’email, non un numero di telefono. La vostra mappa iridea, unica e tracciabile. Collegabile a tutto: acquisti, movimenti, tasse, preferenze politiche, abitudini igieniche, l’ultima volta che avete pianto guardando Lilo e Stich. È la madre di tutti i dati, la fonte primordiale del potere nel XXI secolo. Chi controlla i pivot, controlla il mondo. Perché saprà come e a chi vendere la crema antirughe o il pamphlet politico estremista.
E le rassicurazioni? Ridicole: “Dati custoditi gelosamente! Privacy! Decentralizzazione!” Rassicurazioni che si perdono, come lacrime nella pioggia. Immaginate server “decentralizzati” custoditi da orbi (gli orb, appunto) in bunker segreti… che ovviamente nessuno controllerà mai. OpenAI (di cui Altman è il capo supremo) non sta solo intrattenendo un mondo di solitari con chatbot carini, sta costruendo l’infrastruttura per l’identità unica globale. Un login per dominarli tutti.
Che fare, dunque, cari lettori resistenti? Rifiutate l’orb come rifiutereste un bacio da un vampiro assetato, con alito agghiacciante tipo “Fogna di Calcutta”! Moltiplicate le identità! Usate email usa-e-getta come fossero fazzoletti di carta! Sfruttate browser privacy-focused come se fossero bunker! Usate lo smartphone il meno possibile, e quando lo usate, non usate le app, ma accedete ai servizi attraverso il browser. Combattete per il diritto alla vostra sana schizofrenia digitale! Ogni volta che create un account nuovo, staccato, anonimo, state piantando un chiodo nella bara dei cacciatori di pivot. Siate fantasmi, spettri, ninja digitali. Rendete la vostra vita online inafferrabile, frammentata, inutilizzabile per la schedatura perfetta.
Il pivot è la loro arma definitiva. La nostra arma è il caos. Usiamola. Prima che l’orb bussi alla nostra porta. Tenete ben stretti i vostri occhi. Sono più preziosi di qualsiasi cryptobufala. Sono l’ultimo baluardo. Non cedeteli. Mai.
Notizia notevole, grazie. Pivot costernante. Ennesimo bagno di impotenza. Viva il caos, estremo baluardo (ma di cosa?).
Nota recnica: il font usato, discendente raffinato di type writer, è elegante, ma poco leggibile per gli orb, ops, volevo dire “orbi”. La parola mi è rimasta addosso come una zecca.